
Su Autoblog.it è stato inserito il bellissimo articolo sulla storia della Mini. Le due autovetture classiche che affiancano l’ultimissimo modello inglese sono dei soci della Scuderia Campidoglio. Vi riportiamo l’articolo che potete leggere nella sua interezza e vedere le foto correlate sul sito di riferimento: AUTOBLOG.IT
26 Agosto 1959: nasce la Mini. La storia di un mito che ha percorso la storia del Vecchio continente su quattro ruote
Il futuro passa per la sua storia. Perché è la sua evoluzione, la sua caratterizzazione, la sua anima che riesce a creare uno status, ma è il mantenimento attraverso ere e società differenti a creare il mito.
Già perché quella che raccontiamo è la storia di un piccolo mito in grado di vivere una storia eterogenea, avventurosa, travagliata per certi versi, ma sempre costante nella propria identità. Questa è la storia di Mini, di una piccola divenuta grande. Uno status, un modus vivendi. Il tutto racchiuso in una “mini” quattro ruote. Era il 1957 ed in Gran Bretagna, per ovviare alla crisi del Petrolio di Suez, la BMC – British Motor Corporation – chiese ad Alec Issigonis di progettare un’utilitaria economica. La scelta ricadde su un mezzo che fosse lungo tre metri e largo uno, ma che al contempo potesse essere comoda per quattro persone a bordo. Una sfida. Per ridurre lo spazio e rimanere nelle dimensioni, Issigonis decise di sviluppare una vettura con disposizione del motore e la trazione anteriore con il cambio montato sotto il motore stesso. Uno schema rivoluzionario per l’epoca. Il propulsore era un vecchio BMCA da 848 cc con carburatore ed una potenza di 34 cavalli. Il prototipo fu accolto così favorevolmente che subito si avviò la produzione di serie.
Agosto 1959
L’auto era venduta con due marchi, Austin e Morris, quindi con due denominazioni: Austin Seven e Morris Mini-Minor. Il successo non fu immediato, ma crebbe costantemente, anche perché bisognava abituarsi a forme cosi particolari. Il primo modello prodotto fu la Mini Minor 850.
L’anno seguente sarebbero arrivate le versioni familiari passo allungato portellone a doppio battente e listelli in legno, ma fu nel 1961 che la gamma vide la nascita della variante Cooper 1000, e con due carburatori, la Mini raggiunse quota 55 cavalli. A questo si aggiungevano freni disco anteriori.
1964: Arriva la prima Cooper S
Sempre nel 1964 arrivò la prima Morris Cooper S, equipaggiata con un motore da 1071 cc da 70 cavalli, un rapporto alesaggio per corsa di 70,6 x 68,26 mm, distribuzione a valvole in testa con aste e bilancieri. Si presentò con una lunghezza di 305 cm, una larghezza di 140 ed un’altezza di 135 cm per un passo di 203 cm. Aveva un peso di 635 kg ed una velocità massima di 160 km/h. Cambio a quattro rapporti, con la prima non sincronizzata, frizione monodisco a secco.
Per mostrare un dettame internazionale e per farsi conoscere, la soluzione migliore era sicuramente quella delle competizioni. Per questo la Cooper, opportunamente modificata ed elaborata, decise di entrare nel mondo dei Rally, dove ottenne storiche vittorie. Non vi era ancora la denominazione Mondiale – arrivata nel 1970 – ma la piccola inglese riuscì a cogliere importanti successi al Montecarlo – nel 1963 con Timo Makinen – e al Rally dell’Acropoli. Vittorie che vennero ripetute fino al 1967. Facciamo un passo indietro però e ritorniamo al 1964, quando venne presentata la Austin Mini Cooper S 1275, prodotto fino al 1971. Fu la versione più famosa e prodotta con il propulsore da 1275 cc in grado di erogare 75 cavalli. Era praticamente indistinguibile dalle Mini Cooper S 1071 e 970. In questa versione però vennero aggiunti il radiatore per l’olio motore ed un secondo serbatoio così da avere una capacità di 50 litri.
La produzione continuò il suo percorso, portando le sospensioni Hydroelastic. Fino a quel momento si avevano sospensioni anteriori a ruote indipendenti, bracci triangolari trasversali, con elementi elastici in gomma e ammortizzatori telescopici idraulici. La soluzione Hydroelastic era un sistema progettato dall’ingegnere Moulton. Un sistema basato sull’incomprimibilità di un liquido. Quello utilizzato da mini era composto da quattro “cuscini”, quattro “boccette” interconnesse longitudinalmente tramite un tubo di collegamento.
Questi cuscini erano in gomma con una sorta di armatura metallica esterna. Rimanendo in pressione ad oltre 20 bar, mantenevano l’assetto della vettura. In tutto si trattava di un sistema con quattro elementi identici sulle rispettive ruote. Tra anteriore e posteriore il collegamento era dettato da due tubi di rame posti sotto il pianale. Il peso maggiore sull’assale anteriore era controbilanciato da due molle di richiamo poste sulle sospensioni posteriori. Non fu una soluzione apprezzata immediatamente perché secondo alcuni penalizzava la tenuta di strada.
Nel 1967, Mini svelò la sua seconda generazione, chiamata MK2. Cambiava poco esteticamente, con modeste novità tra cui la mascherina anteriore, il lunotto ed i fari posteriori. Oramai la Mini aveva preso piede ed anche per questo motivo la British Leyland – nuova denominazione della BMC – decise di creare un vero e proprio marchio con Mini, decretando la fine della doppia denominazione Austin e Morris. E proprio in questi anni comparve anche la Mini Cooper 1300 S una versione 1.275 cc derivata e dedicata alle competizioni, capace di sviluppare 105 Cv a 7.800 giri/min con un rapporto di compressione di 12,5:1. Una vettura mitica, ancora oggi ricercatissima dai collezionisti. Il ’69 è invece l’anno della Clubman, diversa per frontale ed interni, e delle Clubman Estate, versione familiare più armonica nelle linee.
Un anno dopo si arrivò alla terza generazione definita MK3. Fu un cambiamento importante anche dal punto di vista stilistico e dei dettagli, pur mantenendo immutata la propria anima ed i propri capisaldi. Via i vetri scorrevoli sostituiti dai più classici discendenti. Via le cerniere delle portiere esterne, cambiata la gamma dei colori con i motori da 848 cc da 37 cavalli, 1.0 da 55 cavalli per la Cooper e 1.3 da 76 avalli per la Cooper S. E’ la seconda metà del 1971 quando venne deciso di ‘pensionare’ le versioni Cooper, rimpiazzandole con le Clubman GT con il motore da 1275 cc della Cooper S con monocarburatore da 58 cavalli. Nonostante alcune modifiche estetiche e tecniche, come il passaggio dei cerchi da 10 ai 12 pollici, la Clubman non ebbe il successo che ci si attendeva. Cosi, la British Leyland decise di modificare e creare una nuova generazione. Nasce ancora una volta la Mini, la MK4. Nuova la mascherina, nuovi rivestimenti e nuova e inedita strumentazione. Due allestimenti ed un motore, da un litro e 42 cavalli. La versione d’accesso era la Mini 1.0 E, poi c’era la Mini 1.0 HLE e la più ricca Mini Mayfair. Ulteriori novità arrivarono nel 1984, anno in cui vennero introdotti i freni a disco anteriori, nuovi rivestimenti per gli interni, carreggiate maggiorate e codolini in plastica sulle ruote. Bisognava dare ancor più visibilità al modello, e così negli anni – più precisamente dal 1985 al 1991 – Mini mostrò tutta una serie di versioni speciali, tra cui la Red Flame, la Check Mate, la Studio 2 o la Piccadilly.
Gli anni Novanta sotto l’egida Rover
La storia della Mini raggiunge gli anni Novanta, quando fu resa necessaria l’adozione di alcune modifiche al modello, compiute dal gruppo Rover, sopraggiunto come casa Madre. La scocca venne rinforzata per motivi di sicurezza, ma più di ogni altra cosa, il motore da 1275 cc da 61 cavalli con iniezione elettronica single point e marmitta catalitica per venire incontro alle normative antinquinamento. Nel 1991 fu reintrodotta sul mercato anche la versione Cooper da 63 cavalli. La Mini a produzione Rover fu prodotta dal 1990 al 1996: la scheda tecnica parlava – oltre al motore da 61 cavalli già citato – di un rapporto di compressione di 10,1:1, rapporto alesaggio per corsa di 70,6 x 81,3 mm, cambio a quattro rapporti sincronizzati, una velocità massima di 152 km/h. Dimensioni e passo rimasero inalterati, con le gomme che erano 12 pollici con pneumatici 145/70 R12. Cinque anni dopo, ecco la versione celebrativa del mito, con la Mini Cooper 35.
L’era BMW: la Mini cambia…per non cambiare
Il 1997 è però l’anno del passaggio sotto l’egida di BMW da parte del gruppo Rover. L’arrivo dei capitali tedeschi portò all’adozione dell’iniezione elettronica multipoint con doppio iniettore – uno per ciascuno dei due condotti di aspirazione – e l’accensione era anch’essa elettronica, senza lo spinterogeno; per consentire l’impego di benzina verde si adottò un rapporto di compressione di 10,5:1, con il raggiungimento della coppia massima a 3000 giri e non più a 3500. Conseguentemente venne adottato un rapporto al differenziale più lungo, pari a 2,76:1. Inoltre, il radiatore del liquido di raffreddamento del motore venne spostato lateralmente, sulla sinistra del vano motore. Una soluzione tecnica già vista sulla primissima Mini del 1959. Al suo posto fu inserita una elettroventola a innesto termostatico. Venne introdotto anche l’airbag lato guida, barre antrintrusione nelle portiere, pretensionatore per le cinture di sicurezza ed ulteriori novità estetiche. La ricerca della sicurezza fu un elemento importante per soddisfare le norme di sicurezza europee ECD2. Chiaro però che la Mini, se da un lato continuò nel suo percorso produttivo fino al 4 ottobre del 2000 con la Final Edition, dall’altro lato, Rover continuò nel suo percorso di evoluzione presentando il concept ACV30 ispirata alla mitica Mini che vinse il Montecarlo.
E’ il 1998 quando BMW cominciò a dettare le linee guida per la creazione della nuova Mini. Furono presentate quindici distinte proposte di design. Il progetto scelto recava la firma di Frank Stephenson e posizionava la nuova Mini come una City Car, lasciando in questa maniera campo libero alla futura BMW Serie1. Pochi mesi dopo, il progetto fu affidato a Gert Volker Hildebrand, già designer Volkswagen e Mitsubishi.
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